L'invenzione del compleanno. Rito postmoderno

STORIA
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Sarà indelicato osservarlo, ma ormai, in Occidente, la santificazione del compleanno s’è trasformata in una fiera del kitsch piccolo borghese. Dai «cafoni» immortalati nelle pagine web di Dagospia alle torte giganti munite di candele che s’accendono al soffio, ben poco si salva dal cattivo gusto. Senza contare il paradosso di una ricorrenza che, per un adulto, certifica soprattutto l’avvicinarsi, a grandi passi, della signora falciatrice. Non a caso, alcune delle più dissacranti commedie del Novecento mettono a nudo questa schizofrenia celebrativa, da The Birthday Party di Harold Pinter (una grottesca festicciola degenerata in «arancia meccanica») a Prima della pensione di Thomas Bernhard (in cui ogni 7 ottobre l’ex direttore di un campo di sterminio nazista si unisce alle proprie sorelle per
onorare il genetliaco di quella buonanima di Himmler). Echi dall’oltretomba.

Curiosamente, siamo portati a ritenere il culto del compleanno da sempre connaturato all’uomo. E invece si tratta di un’invenzione recente (circa cinque secoli fa), come spiega quest’agile volumetto dello storico francese Jean-Claude Schmitt. In età antica era un rito pagano. Poi, con il medioevo, si spalanca una lacuna di dieci secoli.

Nel Milione, Marco Polo registra l’usanza del compleanno fra i Tartari con lo stupore di chi non ha mai sperimentato nulla di simile a Venezia. Ma persino i contemporanei del re di Francia Luigi IX (San Luigi) ignorano la sua data di nascita. A quanto pare, nel medioevo «la conoscenza approssimativa della propria età è la regola in tutti gli strati della società». Nessuno si preoccupa di contare gli anni trascorsi e di sommarli. Sia per l’incapacità matematica di farlo, sia perché, secondo la mentalità corrente, il vero anniversarium è quello della propria morte, il solo viatico per la vita eterna nell’aldilà. Non per nulla, i santi e i martiri vengono «festeggiati» nel presunto giorno del loro decesso. Lo stesso Giobbe, del resto, aveva maledetto la propria nascita, mentre Agostino considerava il parto un remake del peccato originale.

È solo con la prima età moderna (XVI secolo) che la celebrazione del compleanno comincia lentamente a prender piede. Almeno così rivelano le rare fonti disponibili, dai dipinti ai testi autobiografici. I motivi all’origine di questa svolta? Forse la riforma protestante, che rivoluziona il calendario liturgico. Ovvero l’individualismo, figlio dei Lumi. O anche il romanticismo, che esalta il calore della festicciola famigliare. Ma probabilmente fu soprattutto un cambio di passo: «al tempo circolare delle feste religiose e della memoria dei defunti ha fatto seguito un tempo lineare, che capitalizza gli anni anziché riprodurli uno uguale all’altro».

Quando nel 1802 Goethe è omaggiato con una torta di 53 candeline, il compleanno è una pratica ormai consolidata nelle cerchie aristocratiche. Presto si diffonderà anche fra i ceti borghesi e, a partire dal Novecento, negli ambienti popolari. È la democrazia, bellezza. Dunque, tutto bene quel che finisce bene? Mica tanto. L’industrializzazione del compleanno è soltanto un bagliore nella notte, una pietosa sconfessione del nostro destino di mortali. «È necessariamente volgare tutto ciò che non ha qualcosa di funebre», diceva Cioran. Urticante, ma schietto. In fondo, gli uomini del medioevo, pur con lo sguardo sempre rivolto al Cielo, rispetto a noi postmoderni avevano i piedi ben piantati per terra.

Raffaele Liucci - 20 gennaio 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano/Saturno Pdf

Jean-Claude Schmitt, L’invenzione del compleanno, Laterza, pagg. 110, • 18,00
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